“La gratitudine è non solo la più grande delle virtù, ma la madre di tutte le altre”. (Cicerone)
Il tempo passa, le esperienze di vita aumentano, l’incontrollabile desiderio di scoprire il mondo ci travolge in un vortice di quotidiana meraviglia e indefinibile stupore. Alcune parole nel corso dell’esistenza spariscono, altre compaiono, altre ancora rimangono lì per essere “riscoperte” e inondate di un senso nuovo. Una di queste parole, molto importante e spesso completamente cancellata, è proprio la parola “GRAZIE”, definita dal grandissimo Cicerone una “virtù”. Perché la riflessione di oggi vuole puntare sul valore di tale termine? Perché oggi più che mai, per stare bene con noi stessi e soprattutto con gli altri, abbiamo bisogno di gratitudine. Dobbiamo ritornare ad una dimensione di semplicità tale da permetterci di dire “grazie”. Per ogni cosa, per qualsiasi cosa. Quante volte abbiamo detto grazie nell’ultimo anno? Ma soprattutto, quante volte l’abbiamo espresso in modo sincero? La gratitudine è la porta che ci permette di sorridere sempre, anche quando siamo tristi o affranti dalla fatica; è la consapevolezza di riscoprirsi uomini fragili ma anche dal cuore grande. Grazie è una parola magica che cambia tutto, la colonna portante che tiene in piedi il tempio della nostra esistenza e impone un secco “NO” all’economia dell’esclusione e dell’indifferenza.
Illustri pensatori e uomini di raffinata cultura hanno saputo esprimere diverse riflessioni riguardo al tema della gratitudine. Uno di questi, Papa Francesco, uomo di grande fede e teologo dall’animo semplice e diretto, ha tracciato una linea riflessiva molto suggestiva, che ci fa capire come la parola “GRAZIE” sia la base e la linfa del suo pensiero, tanto da indurlo a proclamare il Giubileo della Misericordia. Il dono gratuito della Misericordia si contrappone all’economia dell’esclusione, dove il cuore aperto si contrappone all’egoismo più assoluto: “Così come il comandamento “non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità. Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”. (Evangelici Gaudium, 53.)
Grazie è anche questo: dire NO a ciò che ci allontana dal vivere bene e dal sentirci “insieme agli altri”. Consapevolezza e salute nascono da un animo retto e impegnato, da un animo capace di cancellare qualsiasi ombra di negatività per fare spazio all’essenza del “giusto vivere”. Grazie è sorridere di fronte al grande dono della vita, è saper essere felici quando sorridiamo ai genitori, agli amici e a tutte le persone che in un modo o nell’altro hanno fatto di noi quello che siamo. Grazie è stupore di fronte alla bellezza di tutto; è sapersi spogliare dell’orgoglio per rivestirci di umiltà. Grazie è scoprire ciò per cui vale la pena vivere, senza illusioni e utopie incontrollabili.
Una mole di qualità e sentimenti positivi assolutamente fuori dal comune si concentra in questa parola assolutamente comunissima. Pronunciarla, anche sola, ha l’effetto proprio di sferrarla completamente in tutta la sua massa, svincolata, liberandola in ogni sua articolazione. Quando si pronuncia un grazie, davanti anche al gesto più minuto, perfino anche solo dinanzi all’intenzione, vi si appone un inestimabile marchio di valore, che nobilita oggetto e soggetto, un marchio intrecciato, complesso, consapevole – simbolo, segno e vessillo insieme di favore amicale, di bellezza e piacere, di gentile e autentica riconoscenza, insomma di quella gratitudine sentita che è propria di chi sa l’intima statura delle cose, l’altezza vertiginosa a cui quel valore, riconosciuto, si eleva. Ma in fondo è solo un “grazie”, no?.
“Alziamoci in piedi per ringraziare per il fatto che se non abbiamo imparato molto, almeno abbiamo imparato un po’, e se non abbiamo imparato un po’, almeno non ci siamo ammalati, e se ci siamo ammalati, almeno non siamo morti. Perciò siamo grati. Ci sarà sempre qualcosa per cui vale la pena di ringraziare”.
(Buddha)