“Vi è nel senso stesso del perdono una forza, un desiderio, uno slancio che esige che il perdono sia accordato, se può esserlo, perfino a qualcuno che non lo domanda, che non si pente. Il perdono prende senso (se almeno deve mantenere un senso, cosa che non è sicura), trova la sua possibilità di perdono solo laddove esso è chiamato a fare l’im-possibile e a perdonare l’imperdonabile”. (Jacques Derrida)
Camminare lungo il sentiero della salute implica saper essere consapevoli di ciò che siamo, e, di conseguenza, cogliere l’importanza e la bellezza di tutto. Per “tutto” si intende qualsiasi cosa: esperienze, sentimenti, parole, persone, atteggiamenti, luoghi, dubbi che ci circondano. Tutto. Ogni cosa che fa parte di noi e della nostra vita. E questo vuol dire anche saper riflettere su una miriade di temi e argomenti attuali e sempre presenti nel nostro animo. Il perdono è uno di questi. Come ogni volta che si vuol far filosofia, partiamo col porci delle domande: chi perdona? Chi domanda perdono a chi? Chi ne ha il diritto e il potere? Si perdona qualcuno o si perdona qualcosa a qualcuno? Il perdono è possibile solo alla condizione che sia domandato? Il perdono può essere accordato solo se il colpevole si mortifica, si confessa, si pente?. “Quante domande!” ci verrebbe da dire. Eppure non possiamo non affrontarle. Perdonare è uno di quei verbi che stanno pian piano entrando nel complesso mondo del “nulla”, cioè un verbo che sta lentamente scomparendo dal linguaggio moderno e soprattutto, cosa ancora più triste, dal cuore dell’uomo. Perché? Semplice. L’uomo moderno non pensa più, non agisce più con la sua testa, salvo qualche eccezione. Una persona o un amico ti fa un torto? Bene, io gliene faccio uno più grande. Qualcuno ci fa del male o commette verso di noi azioni sbagliate? Ottimo, che vendetta sia. Sembra quasi di essere ritornati alla famosa legge del taglione. Eppure non è così. Dobbiamo, ahimè e per il dispiacere di qualcuno, ritornare sul nostro sentiero e camminare velocemente verso il recupero di questa necessaria dimensione. Perdonare significa vivere, chi perdona vive, chi non perdona muore. Noi uomini siamo così profondi quanto ingenui: ci piace scegliere sempre la strada più semplice pur essendo consapevoli di essere persone nobili e piene di orgoglio. Ci piace sempre superare ogni regola, ogni limite, andare all’estremo per poi ritornare la maggior parte delle volte delusi e stanchi di correre in un vortice letteralmente utopico.
Ed ecco che qui entra in gioco la dimensione “positiva” della nostra vita, un panorama pieno di stupore che, se preso con impegno, ci può guidare verso una vita almeno dignitosa e caratterizzata forse da un sorriso vero e non fittizio. Il perdono è una di queste dimensioni. Anteporre il perdono a qualsiasi nostra azione ci prepara ad affrontare ogni cosa con un pensiero diverso, con uno spirito rinnovato e con un cuore attento. Jacques Derrida, eloquente filosofo francese e uno dei massimi pensatori del Novecento, affronta in modo perentorio il tema del perdono in uno dei suoi testi più affascinanti, dal titolo appunto “Perdonare“, dove vengono riproposti alcuni incontri di un seminario da lui tenuto per diversi anni all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, nonché presentato in varie conferenze in giro per il mondo. Nel 1964, la Francia approvava la legge sull’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità, e negli anni a venire si accendeva un ampio dibattito sull’argomento. Il perdono ha a che fare con la prescrizione? L’imprescrittibile ha la stessa estensione dell’imperdonabile? O non è piuttosto, il perdono, un concetto che non incontra affatto la logica del penale, che non ha niente a che vedere con l’ambito del giuridico, del regolamentato, del pubblico? Il perdono si può accordare da una collettività a una collettività, o non presuppone piuttosto la riservatezza e la privatezza di un faccia a faccia? Da quando, nel 1945, è nato a Norimberga il concetto di crimine contro l’umanità, si è assistito a proclamazioni pubbliche di pentimento (di stato, di chiesa, di corporazione) e a richieste collettive di perdono. Prendendo duramenteposizione nel dibattito pubblico, Vladimir Jankélévitch afferma l’impossibilità di perdonare i crimini hitleriani, confine storico ultimo della storia del perdono, limite insuperabile e inespiabile che eccede la misura umana e per il quale mai potrà esserci punizione proporzionata. Il perdono, per Jankélévitch, è dunque qualcosa che prende parte a un normale scambio tra uomini, scambio nel quale la possibilità di infliggere una pena è ad esso correlata e nel quale anche la richiesta esplicita di perdono deve essere contemplata. I tedeschi, dice Jankélévitch a ulteriore rafforzamento della sua tesi, non hanno mai chiesto perdono, non hanno mai manifestato una coscienza della loro colpa che non fosse un tentativo malcelato di autogiustificazione.
Commentando il saggio di Jankélévitch, Derrida propone un rivolgimento totale del punto di vista. Il perdono, forse, non è affatto cosa umana, vale a dire che non è cosa che debba entrare in un commercio tra gli uomini. Il perdono fa capo a un’etica che Derrida qualifica come iperbolica, solapossibilità di rompere la gabbia aporetica che è esso stesso a costruire. C’è una contraddizione nel concetto di perdono, ed è proprio questa contraddizione che lo rende un concetto fondante della società umana: sembrerebbe infatti che per perdonare io debba comprendere la colpa dell’altro, e dunque calarmi nella sua situazione, mettermi al suo posto, accettare la consapevolezza che avrei potuto commettere il medesimo errore, e in questo modo annullare l’altro, renderlo me stesso, riempire la distanza tra lui e me, e così rendere inutile il perdono. Invece, il perdono presuppone il mantenimento di tale distanza, e quindi l’incomprensione dell’altro, e da qui l’impossibilità di perdonarlo. Il perdono è impossibile. Non c’è perdono se si resta tra le cose umane. Bisogna uscire dalla logica dello scambio, accettare in un certo senso l’impossibilità del perdono, accettare l’imperdonabile, e accettare che si dia perdono solamente là dove non si dà commercio, solamente là dove il perdono non è richiesto, dove non si prospetta la punizione e non si mira alla riabilitazione.
Il perdono fonda il riconoscimento dell’altro, ne diventa la precondizione. «Al principio ci sarà stata la parola “perdono”», dice Derrida. Al principio di ogni convivenza, deve esserci la possibilità di riconoscere una pluralità di soggetti. Il perdono è la soglia che tiene insieme la distanza dall’altro, e dunque la possibilità di essere in due, e la non assolutizzazione di tale distanza, la capacità di entrare in relazione con l’altro, e dunque, di nuovo, la possibilità di essere in due. Al principio di ogni rivolgersi all’altro, di ogni parlare e di ogni scrivere, c’è un atto di perdono richiesto e accordato (cfr. Le Recensioni di Antigone: Jacques Derrida, Perdonare di Susanna Marietti).
Non è sempre facile né scontato riflettere e trasformare in vita concetti come “Perdonare”, ma l’invito che si vuole lasciare è quello di provare a guardare noi stessi in modo diverso. Siamo qui, in questo mondo, stiamo camminando con i nostri limiti e successi, percorriamo salite e discese, siamo dinamici e confusi, gioiosi e tristi. Proviamo a cambiare l’orizzonte, a virare verso un mare diverso, verso un modo di vivere più sereno e pacato sotto tutti gli aspetti. Proviamo. Tentiamoci. Mettiamoci in discussione. Solo così diventeremo persone consapevoli di avere attorno a noi una bellezza che il più delle volte passa inosservata, una bellezza data anche dal perdono, un atteggiamento che apre le porte a qualsiasi sentimento ed emozione.