“Mann ist wa isst. L’uomo è ciò che mangia”.
Partendo proprio da questa semplice e intrigante affermazione del grande filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, viene spontaneo fermarci e pensare al vero significato che vi si nasconde dietro. L’uomo è davvero ciò che mangia? Cosa pensiamo quando incontriamo, in un senso quasi di “sfida”, una citazione del genere? Che rapporto ha il cibo con la nostra mente e, conseguentemente, con le idee che da essa fuoriescono? Come si può ben notare, la filosofia cerca di capire e di trovare le risposte, attraverso il semplice pensiero, a tutte le domande che avvolgono l’uomo e il suo essere-nel-mondo. Non possiamo arrivare a nessuna conclusione senza aver fatto prima lavorare la nostra mente, a patto che non si tratti di conclusioni affrettate e, come fa intendere lo stesso aggettivo, prive di senso. Ed è anche in questo contesto che la filosofia ci viene incontro, come amica e guida, per accompagnarci in questo cammino intenso che parla e vive di salute. Una piccola riflessione del filosofo Diego Fusaro ci può aiutare perfettamente a cogliere più a fondo questa sfida:
“In quanto uomini ancor prima che pensatori (si ricordi il detto latino “primum vivere, deinde philosophari”), anche i filosofi hanno (avuto) i loro “piatti preferiti”, rivelandosi non di rado dei grandi estimatori del “mangiar bene”. L’attenzione che essi hanno riservato al cibo affiora, oltre che dalle loro autobiografie (nelle quali spesso menzionano esplicitamente i loro piatti preferiti), anche nelle loro stesse opere filosofiche, in cui le metafore, diciamo così, culinarie sono ricorrenti e testimoniano un’incredibile attenzione alla sfera eno-gastronomica. Ludwig Feuerbach, a una sua famosa opera del 1862, aveva dato il titolo “Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia“. L’obiettivo manifesto che Feuerbach si pone è, naturalmente, quello di sostenere un materialismo radicale e anti-idealistico, a tal punto da portarlo a sostenere che noi coincidiamo precisamente con ciò che ingeriamo. Forse questa coincidenza tra essere e mangiare potrà sembrare un po’ eccessiva, ma è innegabile il fatto che, se siamo, è perché mangiamo. Che poi siamo ciò che mangiamo, forse è un po’ troppo, con buona pace di Feuerbach. Un antico adagio dice che non si può pensare con la pancia vuota: e Aristotele stesso ci ricorda, nella Metafisica (982 b 21), che la filosofia nasce quando l’uomo ha risolto i suoi bisogni primari.
Platone, che pure a questo mondo preferiva decisamente quello eterno e immutabile delle Idee, non era certo insensibile al mangiar bene: di lui si sa che amava olive e fichi secchi. Nella Lettera settima, inoltre, Platone se la prende con i Siracusani, accusandoli di mangiare ben tre volte al giorno!.
È poi risaputo che i Pitagorici teorizzarono il vegetarianesimo come prassi di vita, nella convinzione che l’uomo non dovesse cibarsi di carni perché, nella misura in cui le anime possono reincarnarsi anche negli animali, ciò equivarrebbe a essere cannibali. E Pitagora proibì ai suoi discepoli di mangiare fave e la leggenda vuole che egli stesso, inseguito dai suoi nemici, si fece da essi catturare anziché mettersi in salvo correndo per un campo di fave.
Di Epicuro, invece, è diventata proverbiale l’ingordigia, come se egli in tutta la sua vita non avesse fatto altro che fare grandi abbuffate e grandi bevute, tant’è che se oggi diamo dell’epicureo qualcuno, alludiamo alla sua sfrenatezza in materia di piaceri. Eppure quest’immagine di Epicuro che beve e si abbuffa a più non posso non corrisponde pienamente alla realtà, benché, nel tramandarcela, la tradizione sia stata piuttosto uniforme. Nella famosa Lettera a Meneceo, scrive testualmente Epicuro:
“Allorché affermiamo che il piacere è il fine, non facciamo riferimento ai piaceri dei dissoluti e a quelli che risiedono nel godimento dei sensi, come ritengono alcuni ignoranti che non sono d’accordo oppure che interpretano malamente, ma il non soffrire nel corpo né turbarsi nell’anima. Non sono infatti le bevute e i continui bagordi ininterrotti, né il godimento di ragazzini e donne, né il gustare pesci e altre cibarie, quante ne porta una tavola riccamente imbandita, che possono dar luogo a una vita piacevole, bensì il ragionamento assennato, che esamina le cause di ogni scelta e repulsa, e che elimina le opinioni per effetto delle quali il più grande turbamento attanaglia le anime”.”
Come ogni cosa, ciò che sa di eccesso parla inequivocabilmente di rovina. E anche nel complesso e affascinante mondo della salute, questa regola vale all’ennesima potenza. Tutti noi, quindi, abbiamo bisogno di mangiare per poter vivere, per poter agire e soprattutto per poter trasmettere ciò che di più eccellente vive nel nostro animo e nel nostro cuore, perché di corpo siamo fatti. Altresì, abbiamo anche il nobile compito di cercare in ogni istante l’equilibrio necessario e fondamentale, senza il quale qualsiasi attività e desiderio, anche relativo al cibo, sarebbe de-costituente per la nostra stessa essenza, perché di anima e pensiero siamo insigniti. Il segreto sta sempre nel discernere, nel capire e nello scegliere delle piccole regole personali, che siano in grado di guidarci con lucidità e benessere verso un quieto vivere, quantomeno un vivere sereno e maggiormente consapevole.